Ogni anno a febbraio Reporter sans frontières stila la
classifica della libertà di stampa a livello mondiale. Il rapporto 2015
fotografava una realtà preoccupante: minacce, aggressioni fisiche,
incriminazioni a vario titolo avevano reso la vita particolarmente difficile ai
giornalisti. Come sempre la situazione appariva particolarmente virtuosa nei
Paesi del nord Europa mentre continuava a peggiorare in Russia e in Cina.
L’Italia non è in una posizione di cui vantarsi: 73° posto in classifica,
vicino al Nicaragua.
Aspettiamo dunque di vedere tra circa
un mese se e come la situazione del nostro Paese è cambiata.
È chiaro che una classifica che
prende in considerazione tanti indici diversi finisce per fornire un quadro che
sicuramente non è completamente attendibile. I problemi in Italia sono le
intimidazioni e la tendenza della classe politica a denunciare per danni
giornalisti che scrivono articoli scomodi, tutto preoccupante per una
democrazia come la nostra ma sicuramente non paragonabile a Paesi dove i
giornalisti rischiano quotidianamente la vita.
Ci sono stati anche in Italia anni in
cui la professione di giornalista, in particolar modo d’inchiesta su fenomeni
mafiosi o malavitosi, è stata particolarmente pericolosa. Molti sono stati i
giornalisti che hanno perso la vita per la passione che mettevano nel loro
lavoro: Giancarlo Siani a Napoli, Mauro Rostagno in Sicilia, Walter Tobagi a
Milano, lo stesso Peppino Impastato, la cui storia è magistralmente ricordata
nel film I cento passi.
Sono tragedie che ci siamo
fortunatamente lasciati alle spalle, ma che invece riguardano ancora oggi Paesi
che sono nostri partner politici e commerciali, con cui intratteniamo relazioni
diplomatiche, come la Russia e la Cina già citate o che addirittura, come la
Turchia, hanno intrapreso un percorso di avvicinamento all’Unione europea.
In Russia la situazione si è
aggravata a partire dagli anni ’90. Su Wikipedia esiste la pagina “Lista di
giornalisti uccisi in Russia”, il che è già di per sé significativo. Scorrendo
la pagina si comprende come al di là della rilevanza mondiale del caso
dell’uccisione di Anna Politkovskaja nel
2006, la situazione sia ormai fuori controllo: 165 omicidi e solo 50 processi.
Un fenomeno quasi impunito e anche accettato dalla società russa. Nella Turchia
di Erdogan, ormai lontana anni luce dalla modernità e dalla laicità del
grande Atatürk, è molto facile per un
giornalista d’opposizione che abbia un minimo di senso critico verso il governo
ritrovarsi in prigione, con una totale negazione dei diritti civili e umani.
Per quanto riguarda la Cina, basta questo dato a rendere la situazione: un
quarto dei giornalisti in prigione a livello mondiale è in Cina e sono
frequentissime le espulsioni di giornalisti stranieri i cui contributi non sono
graditi al regime.
Tornando alla situazione italiana, in
attesa di leggere il prossimo rapporto di Reporter sans frontières, dobbiamo
dunque preoccuparci? Personalmente non credo. La sensazione è che anzi il
giornalismo abbia perso molto del suo valore e che abbia intrapreso da parecchi
anni una china discendente. Molti parlano in un certo senso di decadenza del
giornalismo italiano. Molto dipende dal progressivo abbandono della carta
stampata a favore dell’informazione su web, che impone tempi diversi e anche
una sorta di continua ricerca al click che favorisce titoli e contenuti
sensazionali o buffi a scapito delle
inchieste o dei contenuti che spingono alla riflessione. La televisione dal suo
canto non sta meglio: i dibattiti politici sono sempre più delle piccole arene,
dove gli ospiti si parlano (o meglio si urlano) addosso e dove tra attacchi
personali, battute e disinformazione, è praticamente impossibile ascoltare
qualcosa di interessante.
L’ultima spiaggia del giornalismo
d’inchiesta di qualità sembrava Report. Uso volontariamente il verbo al passato
perché anche su questa trasmissione abbiamo nelle ultime settimane scoperto
qualcosa di interessante. A dicembre, infatti, Milena Gabanelli ha dedicato una
puntata al colosso energetico Eni, cercando di ricostruire il percorso di
quella che si sospetta essere una delle più grosse tangenti mai pagate al
mondo. Si tratta di circa un miliardo di dollari che l’Eni avrebbe sborsato per
l'acquisto della licenza per sondare i fondali marini del blocco petrolifero
denominato Opl245 in Nigeria. Eni era stata invitata a controbattere alla
ricostruzione di Report attraverso interviste chiuse che, secondo l’azienda,
sono state riportate solo parzialmente e montate per sostenere l’impianto
accusatorio dell’inchiesta ancora in corso. Report quindi opererebbe non già
partendo da un argomento per arrivare ad una tesi, ma partendo da una tesi e
selezionando e manipolando i contenuti in modo da avvalorare la tesi stessa. Eni,
in seguito, ha deciso di rispondere al programma non con un classico comunicato
stampa di smentita successiva ma con una controffensiva in tempo reale su
twitter che - linkando a documenti, cifre, comunicati su internet – ha smontato
punto per punto la tesi di Report. Molti hanno parlato di una nuova frontiera
di social tv.
In un mondo di comunicazione multimediale
sarà sempre più difficile per gli utenti costruirsi una propria opinione
critica sui fatti e sarà sempre più difficile per i giornalisti costruirsi un
ruolo credibile in grado di stare al passo con i tempi. In un contesto dove la
qualità del giornalismo cala, la pluralità delle fonti rischia di disorientare
il cittadino medio verso fonti errate e semplicistiche, talvolta
complottistiche, anziché aumentare la sua consapevolezza. Per questo il compito
odierno dei (veri) giornalisti è particolarmente complesso: recuperare un ruolo
all'interno di questo quadro confuso e complesso.
La sfida del giornalismo del futuro
non sarà dunque solo la libertà di stampa ma anche e soprattutto la capacità di
incidere sulle coscienze dei lettori.
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