giovedì 7 gennaio 2016

Il mestiere del giornalista tra antichi pericoli e sfide future

Ogni anno a febbraio Reporter sans frontières stila la classifica della libertà di stampa a livello mondiale. Il rapporto 2015 fotografava una realtà preoccupante: minacce, aggressioni fisiche, incriminazioni a vario titolo avevano reso la vita particolarmente difficile ai giornalisti. Come sempre la situazione appariva particolarmente virtuosa nei Paesi del nord Europa mentre continuava a peggiorare in Russia e in Cina. L’Italia non è in una posizione di cui vantarsi: 73° posto in classifica, vicino al Nicaragua.

Aspettiamo dunque di vedere tra circa un mese se e come la situazione del nostro Paese è cambiata.

È chiaro che una classifica che prende in considerazione tanti indici diversi finisce per fornire un quadro che sicuramente non è completamente attendibile. I problemi in Italia sono le intimidazioni e la tendenza della classe politica a denunciare per danni giornalisti che scrivono articoli scomodi, tutto preoccupante per una democrazia come la nostra ma sicuramente non paragonabile a Paesi dove i giornalisti rischiano quotidianamente la vita.

Ci sono stati anche in Italia anni in cui la professione di giornalista, in particolar modo d’inchiesta su fenomeni mafiosi o malavitosi, è stata particolarmente pericolosa. Molti sono stati i giornalisti che hanno perso la vita per la passione che mettevano nel loro lavoro: Giancarlo Siani a Napoli, Mauro Rostagno in Sicilia, Walter Tobagi a Milano, lo stesso Peppino Impastato, la cui storia è magistralmente ricordata nel film I cento passi.

Sono tragedie che ci siamo fortunatamente lasciati alle spalle, ma che invece riguardano ancora oggi Paesi che sono nostri partner politici e commerciali, con cui intratteniamo relazioni diplomatiche, come la Russia e la Cina già citate o che addirittura, come la Turchia, hanno intrapreso un percorso di avvicinamento all’Unione europea.

In Russia la situazione si è aggravata a partire dagli anni ’90. Su Wikipedia esiste la pagina “Lista di giornalisti uccisi in Russia”, il che è già di per sé significativo. Scorrendo la pagina si comprende come al di là della rilevanza mondiale del caso dell’uccisione di  Anna Politkovskaja nel 2006, la situazione sia ormai fuori controllo: 165 omicidi e solo 50 processi. Un fenomeno quasi impunito e anche accettato dalla società russa. Nella Turchia di Erdogan, ormai lontana anni luce dalla modernità e dalla laicità del grande  Atatürk, è molto facile per un giornalista d’opposizione che abbia un minimo di senso critico verso il governo ritrovarsi in prigione, con una totale negazione dei diritti civili e umani. Per quanto riguarda la Cina, basta questo dato a rendere la situazione: un quarto dei giornalisti in prigione a livello mondiale è in Cina e sono frequentissime le espulsioni di giornalisti stranieri i cui contributi non sono graditi al regime.

Tornando alla situazione italiana, in attesa di leggere il prossimo rapporto di Reporter sans frontières, dobbiamo dunque preoccuparci? Personalmente non credo. La sensazione è che anzi il giornalismo abbia perso molto del suo valore e che abbia intrapreso da parecchi anni una china discendente. Molti parlano in un certo senso di decadenza del giornalismo italiano. Molto dipende dal progressivo abbandono della carta stampata a favore dell’informazione su web, che impone tempi diversi e anche una sorta di continua ricerca al click che favorisce titoli e contenuti sensazionali o  buffi a scapito delle inchieste o dei contenuti che spingono alla riflessione. La televisione dal suo canto non sta meglio: i dibattiti politici sono sempre più delle piccole arene, dove gli ospiti si parlano (o meglio si urlano) addosso e dove tra attacchi personali, battute e disinformazione, è praticamente impossibile ascoltare qualcosa di interessante.

L’ultima spiaggia del giornalismo d’inchiesta di qualità sembrava Report. Uso volontariamente il verbo al passato perché anche su questa trasmissione abbiamo nelle ultime settimane scoperto qualcosa di interessante. A dicembre, infatti, Milena Gabanelli ha dedicato una puntata al colosso energetico Eni, cercando di ricostruire il percorso di quella che si sospetta essere una delle più grosse tangenti mai pagate al mondo. Si tratta di circa un miliardo di dollari che l’Eni avrebbe sborsato per l'acquisto della licenza per sondare i fondali marini del blocco petrolifero denominato Opl245 in Nigeria. Eni era stata invitata a controbattere alla ricostruzione di Report attraverso interviste chiuse che, secondo l’azienda, sono state riportate solo parzialmente e montate per sostenere l’impianto accusatorio dell’inchiesta ancora in corso. Report quindi opererebbe non già partendo da un argomento per arrivare ad una tesi, ma partendo da una tesi e selezionando e manipolando i contenuti in modo da avvalorare la tesi stessa. Eni, in seguito, ha deciso di rispondere al programma non con un classico comunicato stampa di smentita successiva ma con una controffensiva in tempo reale su twitter che - linkando a documenti, cifre, comunicati su internet – ha smontato punto per punto la tesi di Report. Molti hanno parlato di una nuova frontiera di social tv.  

In un mondo di comunicazione multimediale sarà sempre più difficile per gli utenti costruirsi una propria opinione critica sui fatti e sarà sempre più difficile per i giornalisti costruirsi un ruolo credibile in grado di stare al passo con i tempi. In un contesto dove la qualità del giornalismo cala, la pluralità delle fonti rischia di disorientare il cittadino medio verso fonti errate e semplicistiche, talvolta complottistiche, anziché aumentare la sua consapevolezza. Per questo il compito odierno dei (veri) giornalisti è particolarmente complesso: recuperare un ruolo all'interno di questo quadro confuso e complesso.

La sfida del giornalismo del futuro non sarà dunque solo la libertà di stampa ma anche e soprattutto la capacità di incidere sulle coscienze dei lettori.



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