martedì 30 settembre 2014

La lunga storia di un centenario

Se tutto andasse sempre come immaginiamo la vita delle persone seguirebbe un ciclo logico, prevedibile. Nascere, crescere, invecchiare e poi morire, seguendo questo percorso con i propri coetanei e lasciando indietro i propri figli, i propri nipoti, quelle che chiamiamo nuove generazioni. La natura è però come sappiamo imprevedibile, e a volte trasforma il viaggio di alcuni di noi su questa terra in un lungo, lunghissimo percorso attraverso un mondo che cambia più velocemente di quanto noi non possiamo capire. Vi siete mai chiesti quanta vita abbia alle proprie spalle un centenario? Quale fosse il mondo che lo ha accolto quando ha aperto gli occhi sulla vita? Quante innovazioni, quanti cambiamenti abbia visto intorno a sé e quante persone abbia conosciuto lungo il suo cammino? Io l'ho fatto questa estate, quando ho avuto modo di conoscere per la prima volta un centenario.

Sia ben chiaro, non uno di quei vecchietti confusi chiusi in una struttura specializzata ma un uomo lucido, con i suoi ricordi intatti e un grande, grandissimo sorriso stampato sul suo viso. In realtà non è ancora tecnicamente un centenario, compirà il suo secolo il 31 dicembre guardando il mondo dalla sua sedia su un balcone che affaccia sulla strada principale di un piccolo paesino del sud Italia. Già da molti mesi fervono i preparativi: il telegiornale regionale che verrà ad intervistarlo, la grande festa, i parenti sparsi in Italia e nel mondo che torneranno per festeggiarlo. Ho chiesto ad un suo nipote di andare ad incontrarlo e quindi un giorno, finalmente, mi hanno portata da lui. Non mi conosceva, ma appena ci siamo guardati ha capito che io avevo tanta voglia di ascoltare e di comprendere. Ed ha dunque iniziato, col suo sorriso, un lungo ed avvincente racconto. Mi ha raccontato della campagna in Africa, di un lungo viaggio via mare verso l'Africa orientale, l'Eritrea e la Somalia dove durante la seconda guerra mondiale le truppe italiane persero rovinosamente contro le forze britanniche. E mentre raccontava vedevo attraverso le sue parole i colori dell'Africa, sentivo gli odori, quasi le voci di quei giovani pieni di entusiasmo e di speranze che andarono a morire in quei posti lontani. Elencava con una precisione sorprendente nomi di suoi amici, narrava di un tozzo di pane o di un bicchiere d'acqua che aveva salvato la sua vita, di africani generosi, di quante vite aveva spezzato col suo cannone. Citava tutti i nomi di quanti che non erano tornati come se li vedesse ancora lì, dinanzi a sé, presenze a me invisibili che gli facevano compagnia nel crepuscolo della sua vita. Mi ha raccontato del suo lavoro una volta tornato a casa, del matrimonio, dei figli, della vita che scorreva, della sua compagna che non c'è più e di questi ultimi anni che sembrano tutti così uguali. Ecco, la cosa che mi ha più colpito è la sua grande solitudine nonostante l'amore e la cura della sua famiglia. Perché in fondo è rimasto solo, l'unico della sua generazione, gli altri se ne sono già andati tutti da molto tempo. Mi ha sorriso spesso durante il suo racconto, e mi ha salutata augurandomi tanta felicità, ricordandomi l'importanza dello studio e ripetendomi che bisogna credere nelle cose che si fa, perché ogni cosa anche la più piccola diventa un tesoro immenso se fatta con passione e consapevolezza.

Tornando a casa ho provato a guardarmi intorno e a fare un elenco di tutto ciò che non c'era quando lui è nato, cento anni fa. Il cinema era muto, la televisione era lontana decenni, si viaggiava ancora con le carrozze, scoppiava la prima guerra mondiale e finiva la Belle Epoque, non esisteva la plastica, nel Sud Italia ci si ammalava di malaria, nelle case non c'era l'elettricità, la vita media era più breve e si moriva per un raffreddore.

Decisamente un altro mondo. 


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