mercoledì 29 ottobre 2014

Il Jobs Act e il mercato del lavoro che troveremo

In queste settimane sono molti i progetti che il Governo sta portando avanti che riguardano tanti aspetti del processo di modernizzazione del nostro Paese. Tra questi sicuramente quello che chiamiamo "La buona scuola" attira in modo particolare la nostra attenzione. Siamo studenti, ed è ovvio che la qualità dello studio, l'organizzazione delle scuole, le condizioni di lavoro dei nostri docenti ci riguardino in prima persona.

Paradossalmente però dovremmo riporre più attenzione su un altro progetto di riforma, quello che si chiama Jobs Act e che, come si capisce dal nome, riguarda il mercato del lavoro perché in questo momento si stanno scrivendo le regole che troveremo quando, tra non motlissimo tempo, entreremo (si spera) nel mondo del lavoro.
E allora questo articolo proverà con una certa velocità ma anche con un po' di sintesi, a fare chiarezza sui contenuti del Jobs Act e a raccontare le polemiche che hanno riempito le pagine dei quotidiani e gli spazi nei tg negli ultimi giorni.
Sul fatto che le regole del lavoro in Italia abbiano bisogno di essere semplificate e modernizzate sono tutti in realtà d'accordo. Sembra che nel nostro Paese se un'impresa vuole assumere un dipendente può scegliere tra  46 forme di assunzione, ognuna con proprie regole, diritti e doveri: oltre ai classici co.co.co e co.pro., ci sono per esempio i lavori stagionali e occasionali, il contratto di assunzione a chiamata, una lunga sfilza di stage e tirocini o le collaborazioni autonome con la partita iva (che sono un altra forma di lavoro dipendente mascherato). Da dove deriva tutto questo pasticcio? Da anni ed anni di leggi che si sono sovrapposte e in ultimo dalla famosa Legge Biagi che ha contribuito notevolmente alla diffusione del precariato nel nostro Paese.
Il Jobs Act sembra provare a migliorare questo sistema complesso e confuso, cancellando molti contratti precari, semplificando le tipologie di assunzioni, prevedendo aiuti finanziari a chi assume e un sussidio di disoccupazione uguale per tutti, estendendo a tutte le lavoratrici i diritti relativi alla maternità e riorganizzando gli uffici provinciali del lavoro in una unica nuova Agenzia nazionale per l'occupazione.
Quando però il progetto di Jobs Act è stato presentato, l'attenzione di tutti si è concentrata su un solo aspetto della riforma, l'abolizione del famoso articolo 18. Ma cos'è l'art. 18? E' un articolo dello Statuto dei lavoratori approvato nel 1970 che vieta il licenziamento illegittimo (ovvero effettuato senza comunicazione dei motivi, ingiustificato o discriminatorio) di un lavoratore, prevedendo l'obbligo di reintegro a seguito dell'intervento di un giudice.
L'art. 18 ha svolto un ruolo importantissimo negli anni '70 e '80 in particolare, in un momento in cui c'erano le lotte per i diritti dei lavoratori all'interno delle fabbriche e in cui chi si occupava di sindacato poteva venire cacciato su due piedi. In realtà negli anni successivi la sua applicazione è diventata sempre più rara, e questo articolo è rimasto una sorta di bandiera, un principio su cui si sono più volte ad ogni tentativo di riforma scatenate delle battaglie ideologiche.
I motivi per cui l'art. 18 oggi rappresenta poco o nulla sono semplici: si applica sono nelle aziende con più di 15 dipendenti, in un Paese in cui il 95% delle imprese sono microimprese con meno di 9 addetti e in cui la grande industria come quella degli anni '70 (metalmeccanica, chimica, elettronica) è in pratica sparita. I pochi casi di ricorso che si richiamano a questo articolo si concludono inoltre spessissimo con un accordo tra lavoratore e impresa, con un risarcimento, senza arrivare dinanzi al giudice. Il fatto infine che sia il giudice di volta in volta a decidere se e come applicare tale articolo ha prodotto negli anni dei metodi diversi in ogni zona del Paese, con diritti differenti in pratica per un lavoratore di Palermo e uno di Milano.
Ma proviamo a rigirare la questione. Perché come dice Matteo Renzi sarebbe così importante eliminare l'articolo 18 per favorire la nascita di nuove imprese e soprattutto l'insediamento in Italia delle grosse multinazionali? Non lo avevo capito finché non ho ascoltato l'intervento del deputato Ivan Scalfarotto alla Direzione nazionale del PD che ha discusso e votato, approvandolo a larga maggioranza, il Jobs Act.
Scalfarotto ha raccontato di quando lavorava per una grande impresa straniera in Italia e fu chiamato insieme ad altri colleghi di sedi europee dell'azienda a rispondere ad un questionario che doveva servire ai manager per decidere dove aprire una nuova filiale ed assumere 600 nuovi dipendenti. La prima domanda era: se l'impresa decide di disinvestire nel tuo Paese, in quanto tempo e con quanti soldi si riesce a chiudere lo stabilimento? Scalfarotto lasciò la domanda in bianco: in Italia non è possibile fare una previsione del genere, troppe sono le variabili da considerare (come si regolano i sindacati, gli eventuali scioperi, chi è il giudice che interviene, di che colore politico è la Regione di appartenenza e quanti fondi ha stanziato per gli ammortizzatori sociali, il coinvolgimento dell'opinione pubblica, ecc.). Il risulato? L'azienda decise di aprire in Spagna e l'Italia perse la possibilità di avere 600 persone con un nuovo lavoro.

Se ne potrebbe ovviamente continuare a discutere per ore, ma sarebbe bello che qualcuno chiedesse anche a noi giovani che mondo del lavoro vorremmo trovare quando finiremo gli studi. Io credo che la risposta sarebbe, prima di tutto, un mondo del lavoro con del lavoro disponibile. Una economia che riprende a correre, opportunità di crescita per tutti. E se questo vuol dire cancellare per ora l'articolo 18, forse dovremmo farlo. E ripensare ai diritti nel momento in cui avremmo tutti un lavoro e il tempo e il modo per farlo.


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