In queste settimane sono molti i progetti che il Governo sta
portando avanti che riguardano tanti aspetti del processo di modernizzazione
del nostro Paese. Tra questi sicuramente quello che chiamiamo "La buona
scuola" attira in modo particolare la nostra attenzione. Siamo studenti,
ed è ovvio che la qualità dello studio, l'organizzazione delle scuole, le
condizioni di lavoro dei nostri docenti ci riguardino in prima persona.
Paradossalmente però dovremmo riporre più attenzione su un
altro progetto di riforma, quello che si chiama Jobs Act e che, come si capisce
dal nome, riguarda il mercato del lavoro perché in questo momento si stanno
scrivendo le regole che troveremo quando, tra non motlissimo tempo, entreremo
(si spera) nel mondo del lavoro.
E allora questo articolo proverà con una certa velocità ma
anche con un po' di sintesi, a fare chiarezza sui contenuti del Jobs Act e a
raccontare le polemiche che hanno riempito le pagine dei quotidiani e gli spazi
nei tg negli ultimi giorni.
Sul fatto che le regole del lavoro in Italia abbiano bisogno
di essere semplificate e modernizzate sono tutti in realtà d'accordo. Sembra
che nel nostro Paese se un'impresa vuole assumere un dipendente può scegliere
tra 46 forme di assunzione, ognuna con
proprie regole, diritti e doveri: oltre ai classici co.co.co e co.pro., ci sono
per esempio i lavori stagionali e occasionali, il contratto di assunzione a
chiamata, una lunga sfilza di stage e tirocini o le collaborazioni autonome con
la partita iva (che sono un altra forma di lavoro dipendente mascherato). Da
dove deriva tutto questo pasticcio? Da anni ed anni di leggi che si sono
sovrapposte e in ultimo dalla famosa Legge Biagi che ha contribuito
notevolmente alla diffusione del precariato nel nostro Paese.
Il Jobs Act sembra provare a migliorare questo sistema
complesso e confuso, cancellando molti contratti precari, semplificando le
tipologie di assunzioni, prevedendo aiuti finanziari a chi assume e un sussidio
di disoccupazione uguale per tutti, estendendo a tutte le lavoratrici i diritti
relativi alla maternità e riorganizzando gli uffici provinciali del lavoro in
una unica nuova Agenzia nazionale per l'occupazione.
Quando però il progetto di Jobs Act è stato presentato,
l'attenzione di tutti si è concentrata su un solo aspetto della riforma,
l'abolizione del famoso articolo 18. Ma cos'è l'art. 18? E' un articolo dello
Statuto dei lavoratori approvato nel 1970 che vieta il licenziamento
illegittimo (ovvero effettuato senza comunicazione dei motivi, ingiustificato o
discriminatorio) di un lavoratore, prevedendo l'obbligo di reintegro a seguito
dell'intervento di un giudice.
L'art. 18 ha svolto un ruolo importantissimo negli anni '70
e '80 in particolare, in un momento in cui c'erano le lotte per i diritti dei
lavoratori all'interno delle fabbriche e in cui chi si occupava di sindacato
poteva venire cacciato su due piedi. In realtà negli anni successivi la sua
applicazione è diventata sempre più rara, e questo articolo è rimasto una sorta
di bandiera, un principio su cui si sono più volte ad ogni tentativo di riforma
scatenate delle battaglie ideologiche.
I motivi per cui l'art. 18 oggi rappresenta poco o nulla
sono semplici: si applica sono nelle aziende con più di 15 dipendenti, in un
Paese in cui il 95% delle imprese sono microimprese con meno di 9 addetti e in
cui la grande industria come quella degli anni '70 (metalmeccanica, chimica,
elettronica) è in pratica sparita. I pochi casi di ricorso che si richiamano a
questo articolo si concludono inoltre spessissimo con un accordo tra lavoratore
e impresa, con un risarcimento, senza arrivare dinanzi al giudice. Il fatto
infine che sia il giudice di volta in volta a decidere se e come applicare tale
articolo ha prodotto negli anni dei metodi diversi in ogni zona del Paese, con
diritti differenti in pratica per un lavoratore di Palermo e uno di Milano.
Ma proviamo a rigirare la questione. Perché come dice Matteo
Renzi sarebbe così importante eliminare l'articolo 18 per favorire la nascita
di nuove imprese e soprattutto l'insediamento in Italia delle grosse
multinazionali? Non lo avevo capito finché non ho ascoltato l'intervento del
deputato Ivan Scalfarotto alla Direzione nazionale del PD che ha discusso e
votato, approvandolo a larga maggioranza, il Jobs Act.
Scalfarotto ha raccontato di quando lavorava per una grande
impresa straniera in Italia e fu chiamato insieme ad altri colleghi di sedi
europee dell'azienda a rispondere ad un questionario che doveva servire ai
manager per decidere dove aprire una nuova filiale ed assumere 600 nuovi
dipendenti. La prima domanda era: se l'impresa decide di disinvestire nel tuo
Paese, in quanto tempo e con quanti soldi si riesce a chiudere lo stabilimento?
Scalfarotto lasciò la domanda in bianco: in Italia non è possibile fare una
previsione del genere, troppe sono le variabili da considerare (come si
regolano i sindacati, gli eventuali scioperi, chi è il giudice che interviene,
di che colore politico è la Regione di appartenenza e quanti fondi ha stanziato
per gli ammortizzatori sociali, il coinvolgimento dell'opinione pubblica,
ecc.). Il risulato? L'azienda decise di aprire in Spagna e l'Italia perse la
possibilità di avere 600 persone con un nuovo lavoro.
Se ne potrebbe ovviamente continuare a discutere per ore, ma
sarebbe bello che qualcuno chiedesse anche a noi giovani che mondo del lavoro vorremmo
trovare quando finiremo gli studi. Io credo che la risposta sarebbe, prima di
tutto, un mondo del lavoro con del lavoro disponibile. Una economia che
riprende a correre, opportunità di crescita per tutti. E se questo vuol dire
cancellare per ora l'articolo 18, forse dovremmo farlo. E ripensare ai diritti
nel momento in cui avremmo tutti un lavoro e il tempo e il modo per farlo.
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